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Dopo un anno

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Dopo un anno Stoica viveva ancora con le Nereidi e navigava il fiume con forza, poco interessata alla scuola, dove invece i puttini eccellevano in tutte le materie. Nettuno, ingrassato, passava le serate al chiosco di Vitruvio a ciarlare della sua Grecia lontana. Erano naturalmente, i suoi, discorsi colti, ricchi di riferimenti letterari e conditi di versi in greco antico. Con la birra artigianale Sopranusa, sfociavano spesso in canti etrusco-latini e barzellette in romanesco.

Le Nereidi – il silenzio

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Hello darkness, my old friend

In pieno tramonto, con il bosco tinto di rosso, i bambini si disposero in cerchio sotto il grande pioppo, con Stoica al centro. Gli animali sospesero ogni movimento.

Stoica estrasse il suo acciarino e appiccò il fuoco ad alcuni rametti raccolti lì intorno, appoggiando il pappo sul fuoco, sostenuto da alcune pietre. Intimò il silenzio col ditino davanti alla bocca, prese il foglio appallottolato, umido di sputi infantili e lo appiccicò sul pappo stendendolo come una crema dolce.

Infine prese a dondolare la testa.

E la patacca calò dall’alto appesa al suo tubero, sibilando sospesa tra Stoica e il pappo. Stoica chiuse gli occhi e le indicò il pappo. La patacca, che non aveva occhi, guardò il pappo con gli occhi della sua essenza, ballonzolò e si contorse su se stessa raggrinzendo un pochino. I puttini puzzavano.

Prendendo slancio con il proprio tubero li colpì violentemente, uno per uno. Allora Stoica si alzò, girò la schiena e se ne andò lentamente come era venuta, seguita da tutti i bambini, animali e giovani del quartiere.

Nessuno sa cosa poi fece la patacca, ma il giorno dopo il pappo non c’era più e il fuoco era spento.

Stoica andò personalmente a controllare da vicino ed esclamò fiera :
Ecco! Ecco fatto.

Silence like a cancer grow

Le Nereidi – il pappo

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Stoica, che mangiava molta frutta e beveva poco, rubò dalla dispensa un chilo di patate. Le portò al campo santo in una sacca, scortata dai puttini che, per l’occasione, indossavano scaglie di pesce marcio. Senza farsi vedere dagli adulti prese anche qualche arnese dei tritoni e l’acciarino.

A passi lunghi e ben distesi, coi puttini che puzzavano evidentemente, entrò nel cimitero, sacca in spalla.

A quell’ora era deserto ( i becchini del virus stavano in pausa) . Si accampò vicino a un bosco di cipressi, coi puttini adesi. Svuotò la sacca, sminuzzò le patate, le mischiò con la terra fresca di morto, presa dai tumuli più recenti, poi ordinò ai puttini di mettersi in fila e ripetere delle parole che lei stessa sussurrava al vento. Gatti, animali vari, volatili e i bambini dei quartieri vicini alla foresta, comparvero all’orizzonte, attirati dalla puzza e dalla sua voce.

Stava preparando un pappo per il virus, si seppe poi.

Quando il pappo fu ben compatto lo posò sopra una stoffa adorna di perline, cavò un foglio dalla tasca e ci sputò sopra tre volte. Lo appallottolò, ingiunse le mani al petto e, imitata dai puttini e dai bambini, continuò a parlucchiare tra se e se.

Dopo il rito andarono tutti insieme nel bosco, fino al punto in cui Stoica aveva condotto le Nereidi la sera del #felzforfuture.

Lì ognuno fu libero di giocare un po’ prima che calasse il sole.

I soprani neri – Lunga vita

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ma che fine hanno fatto i soprani neri ?

La povera querzona, vittima della malìa del crisocione, vagò per il giardino sconsolata. I soprano neri la osservavano angosciate, dalla finestrona.
– chiamiamo la neuro – disse la mezza bionda
– intoniamo la nona nota – suggerì la fatina
– telefoniamo alla castana – disse niuna
– ma nooo, prepariamole una buona torta – propose la più alta
– portiamola al mare – replicò la moressa, che aveva già la borsa pronta
– mandiamola al cimitero, a rubare qualcosa – disse la più nera
– pataccone! curiamo il suo talento invece e facciamone la nostra direttrice di coro. Tanto il pisquano non arriva e ce lo chiede il crisocione, che sembra un buon ragazzo – concluse la più saggia.

– Ma senti chi parla, la più saggia ! – tuonò una voce fuori campo.

Temendo la comparsa di altri elementi da mondi paralleli scapparono tutte in giardino dove, con lo spazzacamino e il figlio della segretaria morta, piantarono veloci una siepe di agazzino lungo il confine.

Il vicino spacamaroni scese subito a curiosare, la più nera lo sommerse di improperi mentre la povera querzona, che non capiva più niente, raccoglieva rametti secchi e dirigeva un gruppo di merli. Il crisocione, che intanto aveva fatto amicizia col gattaccio, rispettava la scena.

Verso sera in cielo sorvolò un aereo con la scritta “il maestro vi saluta. Cari auguri, soprano dei miei stivali.”

Le Nereidi – Stoica

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Le Nereidi accorsero per rianimare la bambina che in pochi minuti riacquistò coscienza e fu in grado, nonostante l’età, di dettare in etrusco le statistiche dei morti da virus, con le percentuali dei deceduti e dei guariti sul lungo periodo.

Era Stoica un’orfana che viveva per strada. Nessuno la voleva perché aveva l’abitudine di appiccare fuochi. Nonostante fosse venuta al mondo da poco, sapeva accenderli e domarli a seconda del fascino su di lei esercitato dai loro bagliori. Il fuoco è diverso a seconda del legno che utilizzi, spiegava alle nereidi, ha odore di pino di acacia di quercia, dell’erba che ci metti, di fiore o di cacca secca.

Le Nereidi, come da ordinanza dei dieci oneri, dovendosi occupare di malati e guarigioni, presero Stoica al villaggio, nonostante il parere contrario di Nettuno e dei tritoni.

Secondo Nettuno sarebbe stata un pericolo per tutta la famiglia. Quello sfrucugliare con il fuoco, proprio l’opposto della vita acquatica. I tritoni poi temevano di finire fritti.

Solo i puttini batterono (o battettero) le mani contenti. Stoica era giovane, come loro, e aveva un piglio consono al loro bisogno di esser mantenuti ben vigili e orientati.

Le Nereidi – #felzforfuture

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Le Nereidi – #felzforfuture

Il virus venne illustrato in molti modi da persone di tutte le età che depositavano generosamente i loro disegni in un grande braciere, senza lasciare alcuna perlina in pegno, con gran sconforto delle istituzioni.

Un giorno una bambina si avvicinò al braciere, appiccò il fuoco e annunciò a tutti di aver visto il virus e di avergli anche parlato.

Si chiamava Stoica, stesso nome della sua bisnonna, aveva quattro anni, non aveva paura di nulla e farfugliava stranezze. Le Nereidi vollero crederle, così una sera lei le condusse con passo sicuro verso la foresta, presso la radura dove i felsinei seppellivano i loro morti. La zona era disseminata di tumuli freschi.

Qui Stoica accese una torcia e fece accomodare le nereidi su un tronco marcio, intimando loro il silenzio più assoluto. Più faceva buio e più la torcia spandeva i suoi riverberi. Qui la bimba cominciò a dondolare la testa e d’improvviso si sentì un fruscìo provenire dalle fronde di un pioppo bianco secolare. Battè il piedino tre volte e dall’alto calò una patacca appesa alla sua radice.

Tra le due, la bambina e la patacca, iniziò un dialogo. La patacca vibrava emettendo forti sibili. La bimba la fissava mormorando sillabe spezzate, con l’effetto di intensificare vibrazioni e sibilo. A un certo punto il tubero, esausto, colpì la bimba sulla testa atterrandola al suolo e si ritirò verso l’alto risucchiata dalle fronde.

Le Nereidi – il virus a Felzna

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Purtroppo il virus che portò le nostre a Felzna non fu debellato dal tintinnar delle perline che ormai tutti indossavano. La gente continuava ad ammalarsi nonostante si fossero formate squadre di canalizzatori per sanificare le periferie, orientatori di topi, arzdaure munite di mattarello, comitati di controllo dei focolai virali e squadre di adolescenti #felzforfuture.

Nettuno e le Nereidi partecipavano ad ogni assemblea, come da ordinanza dei dieci oneri loro attribuiti. Le riunioni si tenevano davanti all’orto dei semplici, in piazza grande, dove loro sedevano sopra massi di arenaria tra gli sbocchi dell’Avsa proveniente dalle colline. Tutti invidiavano la loro posizione, soprattutto d’estate con la calura, e facevano a gara per sedersi ai loro piedi.

Le riunioni potevano durare molte ore, con variazioni sull’ordine del giorno, litigi tra le parti e risse per futili motivi. Il popolo amava distrarsi con le Nereidi e le donne felzne sgomitavano per occhieggiare il Nettuno. Ma l’attenzione tornava sempre sull’argomento virus. Che fare? Come isolarlo? Come tornare alla vita di prima, senza malattia e sofferenze?

I puttini dissero che prima di isolare il virus bisognava trovarlo e per trovarlo bisognava vederlo e per vederlo bisognava che avesse un qualche aspetto. Così fu lanciata una call per il miglior ritratto del virus a cui potevano partecipare tutti, pagando una perlina.

Le Nereidi – la scuola di Vitruvio

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I puttini furono iscritti alla scuola di Vitruvio, nei pressi della Conserva di Valverde, dove la tridacna passava a riprenderli dal giro di raccolta dei rifiuti verso mezzogiorno.

Nei primi tempi la flotta confuse spesso le direzioni, imboccando canali sconosciuti, circumnavigando Felzna e impaludandosi nelle periferie.

Scoprirono che Felzna era una città d’acque e che probabilmente erano arrivati dal mare Adriatico risalendo il Reno, lungo un tratto considerato molto periglioso. Chi lo transitava all’incontrario, raccontano ancora oggi i felsinei, avrebbe potuto avere la vita cambiata per sempre e saltare epoche spazio-temporali senza un ordine preciso.

Queste cose furono loro rivelate dalle lavandaie, dai piantavigne e dai guardiani di topi, in posti da cui dovevano spesso uscire spingendo la tridacna a mano con i tritoni stremati sulle spalle.

I racconti erano sempre confermati da Vitruvio, che gestiva l’antica biblioteca attigua alla scuola, ricca di manoscritti di tutte le epoche, dvd e pellicole in bianco/nero. Là c’era anche un chiosco per bere acqua gestito da 5 fanciulle con turni part-time e aperture su prenotazione chiamato “nerosoprano”.

I puttini impararono la lingua felzna, a fare il pane, coltivare gli ortaggi, preparare tisane e istruire gli adulti sui veri problemi della città.

Dalla scuola sarebbero usciti col diploma #felzforfuture e un progetto d’impresa per vivere in autonomia pagando le tasse.

Le Nereidi – le palafitte

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Ad Avsa si divisero gli ambienti.

Le Nereidi occuparono la palafitta più grande e luminosa, dove appesero fiori ai balconi, fissarono tende di perline, allestirono una bella cucina con tappeti, cuscini di seta e tutto l’occorrente. Assicurarono anche scalette di corda al pàtio per risalire comodamente dai bagni di fiume, molto frequenti.

Poi trovarono una grotta poco lontano da casa, semi-nascosta e buia, dove nascondere i loro diari e le sceneggiature per il popolo. C’era una bella spiaggia per i fuochi devozionali, dove intrattenersi a parlare di arte, filosofia, botanica e perline la sera, e prendere il sole di giorno.

Là non poteva andare nessuno. Affissero un cartello molto chiaro:
“lasciate ogni speranza o voi che entrate”.

Nettuno e i puttini si accomodarono nella palafitta più alta, con vista sul verde, perché Nettuno voleva starci comodo in piedi e urlare alla foresta. Sistemò un grande letto di legno, per sé e i puttini, che si lavavano poco. Ogni tanto li lanciava dalla finestra nel fiume, ché rivivessero il trauma della nascita e dell’abbandono della loro vera madre. Impararono presto a nuotare, lavarsi e alzarsi presto la mattina.

La palafitta dei tritoni invece venne adibita a fabbrica di perline. Era ampia e solida, con ceste di preziosi, aghi forbici e uncini appesi alle pareti. Per dormire usarono amache fissate ai pali sotto la palafitta, a pelo d’acqua. Si mettevano a letto con l’alta marea e si risvegliavano con la bassa, quando l’acqua è cheta e le nereidi suonano la campana della colazione.

Pure le Nereidi dormivano in amache, nella stanza attigua alla grande cucina, dove si dondolavano ogni sera l’un l’altra per addormentarsi. Di notte, coi loro sonni agitati, capitava che si scontrassero scambiandosi di posto e impigliandosi con i capelli, per poi accusarsi la mattina seguente della sparizione di corone perline bracciali collane e cavigliere.

Le Nereidi – i dieci oneri

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Alla nuova famiglia tipo, tributati gli onori, imposero gli oneri.

Avrebbero dovuto finché restassero a Felzna:
1) passare lungo i canali della città suonando il corno e scuotendo le perline
2) approvvigionarsi da un unico fornitore
3) aiutare le lavandaie la mattina del sabato
4) guarire i malati accorrendo ovunque ce ne fosse bisogno
5) pulire i canali con dei retini
6) partecipare alle riunioni della comunità felsinea
7) sceneggiare fole in rima per il popolo
8) suonare, cantare e far ballare il popolo
9) mandare i loro puttini a scuola
10) stabilirsi in tre palafitte nel quartiere Avsa

Fu così che Nereidi, Nettuno, tritoni e puttini attraccarono la tridacna al porto del villaggio di Avsa e fecero il loro ingresso nel quartiere che divenne la base delle loro attività.

Le Nereidi – i putti

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Sulla tridacna Nettuno pregava e le Nereidi ballavano scuotendo le perline.
I tritoni nuotavano lenti avanti e indietro aizzati dai felsinei che in fondo in fondo erano contenti di quel virus che aveva portato fin lì le dottoresse con quel bronzo d’uomo.

Al terzo giorno una matrona di via della piella, con immensa gratitudine, buttò dal balcone quattro dei suoi puttini che le avevano rotto i timpani. Il marito, gettatosi in strada per recuperarli fu arrestato per violenza su minori. I quattro, consci d’essere improvvisamente orfani, si lanciarono in tridacna tra i piedoni del Nettuno e le cosce delle Nereidi, ritrovandosi finalmente liberi e nudi. I tritoni si fecero chiamare zii e si sparse la voce che le dottoresse avevano quattro figli. Il sindaco conferì loro la cittadinanza onoraria felsinea, per il valore dimostrato nella lotta contro il virus e perché rappresentavano la nuova famiglia tipo.

Le Nereidi – fantasia popolare

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Felzna si riempì di fole.

Qualcuno, vedendo la tridacna e il suo equipaggio, pensava di essere passato morto e di trovarsi nell’aldilà, altri pensavano di star sognando, ma i più applaudivano credendo si trattasse di una flotta di medici arrivati dall’Oriente.

Una signora gettò pollo e patatine, un’altra allungò ciotole con brodo e tortellini, un vecchio offrì una fiasca di buon vino rosso. La caciara purtroppo attirò una squadra di poliziotti che intimò alla tridacna di accostare.

– Lasciate passare le dottoresse  – gridava il popolo.

Nettuno, gasato dalla folla, si erse in tutta la sua magnificenza, alzò il pollice destro e citò Confucio guardando dritto in faccia i poliziotti: “se trovi una mano che ti aiuti nel momento del bisogno la trovi alla fine del tuo braccio”

https://www.youtube.com/watch?v=NA0kX-97fGc

I felsinei stimolati dalla citazione tirarono fuori perline, bottoni, bastoncini, conchiglie e cominciarono a giocare al gioco delle Nereidi, dove vince chi cuce la mascherina più originale.

Veloce si sparse la voce che il tintinnìo delle perline terrebbe lontano il virus. La città si fece più allegra e chiassosa. Le arzdaure suonarono le pignatte e gli umarell diventarono più operativi.

Le Nereidi – arrivo a Felzna

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Finché la tridacna urtò contro una grossa griglia di ferro. Nettuno, Nereidi e tritoni, cullati dalla dolce corrente del fiume, si risvegliarono bruscamente.

Da alti bastioni di muratura, dei sapiens con buffi copricapi e lunghe lance in mano gridarono:
– Altolà! Chi va là? –
Nettuno parlò in greco e quelli risposero – Vamolà !
La grata si sollevò cigolando brutalmente mentre da lontano giungevano lamenti stonati di violino e slaps di Djembè.

Le Nereidi ammutolirono.

Era un posto del tutto diverso da casa loro: sembrava disabitato. Una brezza leggera faceva tintinnare le mascherine adornate di perline. I tritoni tiravano la tridacna piano, Nettuno si accucciò a poppa. Qualcuno da dietro le finestre sbirciava perché, lo ricordiamo, Nettuno e le Nereidi erano nudi.

Ciò che doveva apparire ai felsinei chiusi in casa dal virus dilagante, erano creature con le tette di fuori, ritte sulla prua di una grande conchiglia trainata da pesci-cavallo con busto e volti umani.

Le Nereidi – il virus di Spina

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Cautha viveva a Spina, città etrusca, importante snodo dell’Adriatico per il commercio di perline. Quando Nettuno e le Nereidi vi sbarcarono era già notte fonda e incapparono in poliziotti in assetto da guerra che intimarono loro di risalire in tridacna e sparire nel nulla, verso sud.

Un nuovo virus arrivato dal nord aveva infettato tutta la popolazione e si doveva contenerne la diffusione con ogni mezzo.Nettuno e i suoi ripartirono senza far gnole. Alcuni indigeni, nascosti tra le dune, lanciarono loro dei sacchetti di perline e fritto misto. Tra questi c’era Cautha che con le mani strette al petto gridò “entra nelle valli e prendi il canale che è più sicuro”.

Intanto le Nereidi avevano già aperto i sacchetti di perline mentre i tritoni distribuivano il pesce fritto . Nettuno seguì il consiglio di Cautha: si tenne sotto costa navigando a sud e prese il primo canale che entrava nelle Valli di Comacchio. Innalzò in tridacna la rete di protezione contro le zanzare e lasciò la prua per mangiare con gli altri.

In tridacna si stava bene. Albeggiava, il fritto misto era buono e tutti si misero a canticchiare suonando i sacchetti di perline, battendo le mani e soffiando la vela per aiutare il vento.

Nettuno possente era però preoccupato non vedendo anima viva tra le valli. Per scacciare i cattivi pensieri si mise a creare delle mascherine con avanzi di pelle d’uovo caricati a Gallipoli. Le Nereidi, incoscienti e serene, ci attaccarono le perline aiutate dai tritoni, che fornivano un collante secreto dalle loro ascelle, piuttosto resistente.

Così navigarono protetti, dal virus e dalle zanzare, lungo il canale che li portava, chissà dove … Stanchi di parlare, di masticare, di immaginare, si addormentarono cullati dalla corrente e dal canto degli uccelli di pianura.

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Le Nereidi – terra di Cautha

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Quando Nettuno vide le Nereidi rallentò la corsa.

Le ragazze si avvicinarono e zomparono sulla tridacna per conoscerlo meglio.  Rosso in volto perché era nudo, si acquietò quando vide che anche le ragazze erano nude.

Aveva grossi piedi e braccia robuste, ginocchia forti e gambe tornite. Le Nereidi erano piccole e sottili, tranne Neria che era più larga di fianchi. Dopo alcuni convenevoli, si accomodarono tutte a poppa e la navigata riprese.

Neria teneva sulle gambe le sorelle Mezzafjonda e Squerzja, che avevano paura, mentre Njula s’affacciava a prua per schernire i tritoni.
Nettuno, che ora andava più lento, prese a narrare del mare Adriatico e di una certa Cautha, commerciante etrusca di perline che stava andando a trovare.

Alla parola perline le Nereidi raccontarono della loro nascita, delle 46 sorelle scappate di grotta e del povero Nerito. Nettuno, che avrebbe voluto scaricarle a Corfù, inebetito passò il confine senza vedere i cartelli. Anche i tritoni entrarono in tridacna a chiacchierare finché verso sera urtarono tutti contro un enorme scoglio e si accorsero di essere arrivati al Conero, costa marchigiana.

Ormai le erano più vicine alla terra di Cautha che a casa loro, tanto valeva proseguire il viaggio e andare a conoscere la commerciante di perline.

Navigarono ancora un’ oretta e infine approdarono a Spina.

tritoni

 Le Nereidi – Nettuno

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Le quattro ragazze crebbero bellissime e bravissime. La mamma era fiera di loro e il padre naturalmente sentenziava che era tutto merito suo.

Crescendo presero a vagab(ondare) in tutte le direzioni. Seguivano i pesci o si spingevano fino alle costa per spaventare i bambini. I pescatori facevano a gara per acchiapparle mentre incauti nuotatori che si spingevano al largo se le ritrovavano tra le gambe rischiando di affogare.

Quando uscivano dalla grotta adornavano i capelli di perline, intrecciate con fili di alga marina e conchiglie. Sfrecciando via fluide creavano vibrazioni, bolle e un giocoso tintinnio che si perdeva nel vento.

Un giorno pieno di sole, mentre cavalcavano tra i flutti verso ovest, videro in lontananza un carro a pelo d’acqua condotto da un uomo brunito che reggeva un tridente nella mano destra. Era Nettuno possente, su una tridacna enorme, trainata da specie di cavalli con branchie e code di pesce.

Schiumando correva verso lo Ionio.

Il ragazzone aveva una doppia vita, facendosi chiamare Poseidone nell’Egeo e Nettuno in Italia. Andava avanti e indietro trasportando sabbia e ogni sorta di materiale edile raccolto alla rinfusa dove sapeva lui. In questo mestiere lo aiutavano i tritoni figli di Dagon, migranti della Mesopotamia.

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Le Nereidi – Nerito

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Poi un giorno tornò Nereo con un fanciullo di nome Nerito.

Lo presentò come il loro fratello primogenito e spazzò via le piccole nereidi dalle ceste di perle.

Oceanina rimase basìta perché non ne sapeva nulla. Non sapeva di aver partorito un maschio e chiese a Nereo se piuttosto avesse trovato le altre sue figlie per i mari.

Nereo rispose che proprio no, che non sapeva nemmeno come fossero fatte e che nessuna donna vista in giro somigliava a lui.

L’unico a lui un po’ somigliante era Nerito, che all’età di 10 anni si chiamava Nerito, aveva barba e capelli lunghi e sentenziava nei porti, dove spesso la polizia gli intimava di tornare a casa.

Nereo raccontò che quando lo vide la prima volta il bimbo piangeva perché non sapeva dove fosse la sua casa. Dopo aver parlato con lui si convinse che era figlio di Oceanina degli abissi ed era nato in una grotta in fondo al mare.

Oceanina perplessa mostrò al marito le quattro figlie mostrando il sigillo indistinguibile sul terzo occhio e disse – questo è il segno che sono figlie mie, Nerito non ce l’ha.

Così Nerito e Nereo affranti se ne andarono ad abitare in una grotta sfitta a 200 mt, ma col tempo furono ammessi a cena e divennero una bella famiglia con due appartamenti.

Le Nereidi volevano bene a Nerito e lo chiamarono fratello, poi un giorno lui si innamorò di Afrodite e fu tramutato in conchiglia divenendo un ciondolo da collanina, in seguito perduto a Crognaleto.

Sul perché e il per come del suo crudele destino basta cercare nel web.

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Le Nereidi – gli occhi delle Nereidi

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Mamma Oceanina, sistemando i doni ricevuti si sentiva osservata.

Alzò la testa dalle ceste e si girò di scatto.

Nel fondo buio della grotta vide otto piccoli occhi luminescenti che la fissavano. Lì per lì pensò fosse un mostro marino infilatosi in casa mentre baciava i parenti, ma poi gli occhi si separarono a due a due e si fecero avanti quattro esserini con due occhi a testa e tanti capelli.

Piagnucolavano all’unisono: mamma!

Commossa Oceanina riconobbe quattro delle sue tante figlie disperse in mare col parto.

Le tenerelle le si impigliarono subito tra i capelli come pidocchi e la mamma ebbe il suo da fare a districarle dalle chiome per accomodarle nelle ceste di perle.

Qui presero a saltare come pulci facendo un gran casino.

Furono giorni felici.

Le quattro nereidi stressarono Oceanina ma impararono un po’ di cose della vita di mare e ascoltarono fiabe di naviganti e terre lontane.

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Le Nereidi – il risveglio

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Al risveglio improvviso Oceanina gridò “Cinquanta figlie? Un incubo”.

Sentendosi assai bene si alzò, si avvicinò all’uscio e vide, fuori dalla grotta, una folla con centinaia di occhi puntati su di lei.

Erano venuti tutti, anche da lontano, per offrirle ceste di perle, coralli e sassi speciali. C’erano papà mamma e le sue quaranta sorelle con mariti e figli: Climene, Giapeto, Atlante e Menezio, Prometeo ed Epimeteo, tanto per citarne alcuni. Una gran festa.

Onorata ringraziò e abbracciò tutti, anche quelli che non aveva mai visto prima o non ricordava chi  fossero. La gioia fu grande finché il vecchio Ponto disse:

– Vogliamo vedere le bambine! –

Oceanina si fece coraggio e disse la verità:

– Sono andate a scuola –

La folla persuasa si sciolse e la neo-mamma rientrò in grotta con le ceste ricolme dei doni.

perlacce

Le Nereidi – la dormita

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Mamma Oceanina, questo è il suo nome, dormì sette giorni e sette notti, mentre Nereo nuotava disperato in cerca delle cosine brutte, facendo domande ai pescatori.

-Avete visto le mie figlie uscire dall’acqua?
– No, anche oggi solo alghe e pezzi di plastica

E giù si  reimmergeva nelle profondità del mare, dove c’è buio pesto, sabbia, roccia e qualche lattina.

Oceanina intanto dormiva distesa nella sua buca di partoriente e sognava. Sognava di aver partorito creature speciali, bellissime, che andavano colonizzando 50 luoghi sulla terra, laddove si formano fiumi, laghi, mari interni e lagune.

Tutte portavano i segni della loro provenienza e il sigillo della madre nel terzo occhio. Tutte non potevano allontanarsi mai dall’acqua, pena la secchezza eterna.

Le vedeva in sogno tutte, le contava ed erano 50.